Vogliamo ricordare il 7 dicembre del 1988 e commemorare le vittime pubblicando le memorie di una signora italiana di origine armena, che
avendo sentito il bisogno morale o forse il richiamo delle sue origini
è partita per la zona terremotata. Era il settembre del 1989 ...
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Lakmè Pabis in centro |
... Come Dio volle arrivammo a Yerevan dove però non ci aspettava nessuno. Per caso ritrovai il numero di telefono di una donna armena che avevo aiutato a Roma e ci venne a prendere il marito e ci portò fino a Spitak, un altopiano a 1.800 metri di altezza.
Primo impatto: km. di macerie, un enorme cimitero, poi questo “Villaggio Italia”.
Un grande altopiano circondato da montagne, in lontananza si scorgeva il monte Ararat e tutto bianco.
Il “Villaggio Italia” è stato costruito dagli italiani accorsi subito dopo il terremoto per soccorrerli, era composto di 300 case (dette mapi) prefabbricate, un ambulatorio con farmacia, ecografia, sala raggi X; una cucina tutta in acciaio con attigua camera dispensa, 3 frigoriferi, un asilo per 130 bambini quasi tutti senza mamma e papà e senza casa, 4 camere per i medici, me compresa, una grande sala di ritrovo trasformabile in chiesa per quando ci fosse un sacerdote, due scuole elementari e medie con circa 350 allievi in ognuna e 3 casette: 1 per le 4 suore mandate da Madre Teresa di Calcutta, 1 per 10 bambini handicappati e 1 per 10 vecchiette; tutti a cura delle suore.
20 containers contenenti farmaci, generi alimentari, acqua minerale, vestiario ecc. ecc.
Altro impatto con questo luogo dove traspariva la desolazione: tutti vestiti di nero, occhi spenti assenti, facce tristi, gente smarrita, impaurita, abulica. Ho pianto con loro quando ho visitato il cimitero immenso e mi hanno raccontato cose allucinanti, raccapriccianti… ho pianto ancora con loro. Poi … ho sentito che il mio compito era ben altro, cioè come aiutarli a tirarsi su.
Sono entrata in punta di piedi, anche se l’invito specifico era quello di portare il mio metodo didattico all’asilo. Così mi sono solo messa a disposizione, e ho fatto di tutto come un vero “passe partout”.
La mia prima difficoltà è stata la lingua. Io parlavo l’armeno occidentale di Istanbul dove sono nata e loro l’armeno orientale, da lì la necessità di crearmi un vocabolario personale e così ho imparato l’altro armeno.
Mi hanno subito affidato il compito di controllare le scadenze dei farmaci di un container, per bruciare quelli scaduti. Poi ho fatto da interprete in ambulatorio con il medico generico, con l’urologo, il pediatra, le infermiere spagnole, la ginecologa. Ho visto tanti malati, mutilati, piaghe inguaribili, e tante donne malate per mancanza di igiene la più elementare tra cui l’acqua e il sapone...
Poi ho fatto da interprete tra i personaggi che venivano a visitare il “Villaggio Italia”.
Intanto veniva giù la neve, tutto era sepolto sotto una coltre bianca con venti gradi sotto zero, un freddo che tagliava la faccia e penetrava fino alle ossa.
Intanto visitavo le case (mapi) ho conosciuto molti abitanti e preso contatto col vero dolore, quello che ti torce il cuore; per esempio c’erano alcune mamme che avevano sentito gridare i propri figli sotto le macerie, chiamare aiuto ed essere impotenti davanti alla terra che li aveva inghiottiti. Erano rimaste pietrificate per sempre, un dolore infinito che non si potrà mai lenire neanche con i farmaci.
Poi ho preso contatto con l’asilo (130 bambini), la direttrice, le maestre con le quali ho iniziato un rapporto particolare, con incontri bisettimanali per cercare di aprire uno spiraglio di fiducia e di speranza nell’avvenire e cercare di insegnare loro il metodo della “Gioiosa” del Centro Coscienza di Milano.
Avevo preparato tutto il programma ciclostilato e tutte le fiabe, il tutto tradotto in armeno: un grande lavoro.
Un certo giorno arriva il capo dei comunisti armeni, tutti in subbuglio, io faccio da interprete, e alla fine dell’incontro attiro la sua attenzione e dico: “Sono venuta ad aiutare il mio popolo ma soprattutto a portare il mio metodo (molto valido) per l’asilo, però non vorrei che pensaste che lo impongo di nascosto, quindi vorrei la sua autorizzazione perché non sia mai che qualche ispettore venisse e mi dicesse: “ma lei chi è, chi l’ha chiamata, chi l’ha autorizzata”.
Allora il Capo mi ha calorosamente pregato e ringraziato per ciò che stavo facendo per i bambini.
I bambini mi si aggrappano a grappoli in cerca di affetto, di un punto fermo, ma io con immenso dolore e tanto tatto li respingevo tutti perché pensavo al momento della mia partenza, e dopo essersi affezionati a me, sarebbe stato ancora un altro tradimento. Poveri bimbi, mi facevano una pena immensa. Qualcuno non mangiava, qualcuno se ne stava lì in silenzio, nessuno si rendeva conto dell’accaduto, solo sentivano questo vuoto terribile e quel senso d’ingiustizia. A questo proposito, sono entrata in contatto con la Croce Blu di Parigi per aiutare alcuni di questi bambini ancora sotto shock tramite lo psicanalista venuto con la interprete.
Si avvicinava il momento della partenza di tutti gli italiani e delle spagnole; ma prima della loro partenza abbiamo preparato il Presepe e l’albero di Natale, e il 21 dicembre sono partiti tutti lasciandomi sola responsabile di tutto il “Villaggio Italia”: cioè: il controllo di 20 containers (grossi vagoni carichi di generi alimentari, abiti, acqua minerale, detersivi, macchinari, ecc.).
Rimasta sola, ho preparato fino a notte fonda circa 700 pacchetti per Natale. Poi è arrivato il giorno della festa: il I° della loro vita. Avevo preparato nella biblioteca (luogo dei nostri incontri serali) su un grande tavolo tanti piatti con del panettone e del torrone. Ho fatto entrare 40 bambini alla volta con la candelina accesa. Tutti in gran silenzio e reverenza.
Fu una processione che durò tanti giorni.
Fu veramente commovente, ma io li capii profondamente perché l’unica loro salvezza era il fatto di riscoprire in ognuno di loro il senso di Dio, di quella entità che loro non conoscevano ma che esiste in ogni essere umano sulla faccia della terra.
Quel senso di Dio è così importate che chi ce l’ha non ha più paura.
Così incominciai ad andare nelle scuole, e classe per classe incominciai a parlare, ma sempre in punta di piedi partendo da “Chi sono?” chi è il mondo? quale rapporto ho io col mondo? e poi man mano li ho preparati al battesimo e Prima Comunione. Piano piano sono riuscita a far battezzare più di 1.000 persone tra bambini, giovani, vecchi; una vera processione.
Passarono altri giorni laboriosi e si avvicinava la festa di Pasqua.
Così ho distribuito in ogni classe le uova rosse che avevo preparato (più di 800 uova trovate con immensa difficoltà e ad un prezzo esorbitante) e la polverina rossa mandatami da mia figlia.
Questo rito, reso sacro dal mio atteggiamento è stato molto sentito, proprio come un momento magico vissuto in raccoglimento in cui si è sentita veramente la presenza Divina fra noi. A qualcuno brillavano gli occhi, altri avevano le lagrime di commozione.
A questo punto ho fatto un grande atto di forza. Mi sono recata al cimitero, erano mesi in cui li vedevo andarvi in processione rimanerci ore e qualche volta pure con la torta con le candele per un figlio che avrebbe compiuto gli anni….
Sono rimasta in ascolto di quel dolore, capivo che era molto forte ma sentivo anche che quella non era la maniera giusta di viverlo. Bisognava trovare la forza d’animo e quell’amore per poter tramutare quel dolore da ribellione in accettazione.
Così ho parlato ad ognuno da cuore a cuore e sono riuscita a convincerli. Ho detto loro: “tornatevene alle vostre case, cercate di usare il pettine, il sapone, pulite le vostre case e occupatevi piuttosto di quelli che sono vivi e che stanno per le strade.”
Non avrei mai creduto che avrebbero accettato il mio ordine, ma in fondo sentivano che era giusto, e che era solo dettato da comprensione e dall’amore per quel loro patimento.
Passarono altri giorni e mentre s’avvicinava la mia partenza incominciavo a cogliere il sorriso su alcuni volti, e “par che rispondessero al mio invocare muto”, per me per loro e per tutti quelli che non c’erano più…
Alla mia partenza li avevo tutti intorno a grappoli, fino a mezzanotte inoltrata.
Ho appena fatto in tempo le valigie, partivamo alle 2 di notte.
Ero ubriaca di fatica e di emozione, ma molto gioiosa perché il mio soggiorno anche se faticosamente aveva dato i suoi frutti benefici.
E’ stata una esperienza indimenticabile che ha inciso molto dentro di me perché ho capito il vero senso della vita.
E che questo mio racconto sia, lo spero, un invito a voi tutti a dare di sé agli altri anche se sconosciuti in qualsiasi momento e occasione della vostra vita.
Perché è bello, molto bello. Sapete che sentivo come un profumo di rose nel cuore e credo che in cielo cantavano gli angeli…
Roma, 10 maggio 1993 Lakmè Pabis
(1915-1998)