di fronte alla catastrofe umanitaria, come
quella che affrontano oggi gli armeni del Nagorno-Karabakh, con migliaia di vittime e di
feriti, decine di migliaia di sfollati e di popolazione che abbandona per
sempre le proprie case nei territori passati all’Azerbaijan, non è sufficiente, per un grande
quotidiano come Repubblica presentare ai lettori le logiche e le preoccupazioni
delle parti del conflitto e descrivere i segni lasciati
dalla guerra. Occorre anche entrare
nel merito: valutare e prendere posizione, a volte con decisione e coraggio. Perché
alcune delle preoccupazioni, come quella dello
svuotamento dalla sua popolazione autoctona dei territori storicamente armeni,
diventata ormai realtà – e cos’è se non una pulizia etnica? - o il palese
pericolo della profanazione e distruzione da
parte degli azeri del ricchissimo patrimonio archeologico e architettonico
armeno lì presente, sono più incombenti delle altre. Preoccupazioni
più che fondate se teniamo conto della distruzione, tra
il 2005 e il 2006, per mano dell'esercito azero, più di 3000 lapidi e
iscrizioni che erano parte di un antico cimitero armeno nella regione del
Nakhichevan – un’altra enclave armena, attualmente nel territorio
dell’Azerbaijan. Purtroppo, in questi giorni, vengono documentati attraverso
foto e video, i danni inferti ai monumenti e la profanazione di chiese presenti
nei territori recentemente occupati dagli azeri nel Nagorno-Karabakh.
La Repubblica non può, e non deve
nemmeno tacere sulla natura antitetica delle due leadership politiche del
conflitto. Il Primo Ministro Nikol Pashinyan, piaccia o no, esprime il fragile
anelito di trasformazione democratica del popolo armeno in un contesto
domestico e regionale difficile: dopo la sconfitta in
una guerra impari, affronta, l’ostilità dei nostalgici
e sostenitori del vecchio regime che ha saputo sloggiare con la
“rivoluzione di velluto” del 2018. Ilham Aliyev,
per contrasto, è il Presidente di un regime autoritario che, secondo tutti i
principali parametri internazionali, sopprime i diritti dell’opposizione, delle
minoranze e la libertà di espressione e stampa. Il suo principale alleato è il
Presidente turco Erdogan, responsabile storico della sconcertante involuzione
autocratica della Turchia negli ultimi anni e di una serie di azioni politico-militari destabilizzanti (Siria,
Libia, Mediterraneo orientale, ora il Caucaso, etc.), le cui ricadute pesano
anche su di noi.
È in gioco molto di più di quello che
sembra, e non ci possiamo permettere di essere spettatori distratti, accettando che passi l’idea dell’aggressione militare come
l’unica via per la risoluzione dei conflitti territoriali. È in
discussione la nostra collettiva credibilità come Paese e come Europa, nella
difesa dei diritti umani fondamentali e della democrazia. È in discussione la
vostra credibilità come interpreti del giornalismo più onesto e coraggioso.
25 novembre 2020